Quando ad un marinaio di Lerici chiedevano perché a trent’anni non fosse ancora sposato la risposta che da lui ottenevano era: ”Per mettere al mondo degli orfani?”. Il destino di gente che spesso si chiamava Felice, Fausto, Fortunato, Prospero, Onesto, Primo o Ultimo, secondo un esorcismo che li accompagnava dalla nascita, era quello di non vivere a lungo o, meglio, di morire giovani, per naufragio in qualche tempesta oceanica, per affondamento in qualche guerra, per qualche pestilenza micidiale. I marinai di Lerici, ma un po’ tutti i marinai dalle origini della navigazione, salpavano a bordo delle navi che li avevano ingaggiati senza alcuna certezza di ritornare. Il loro mare era quello di orizzonte, infinita distanza da percorrere tra mille rischi fino all’apparire di una sagoma scura chiamata a viva voce “Terra!”. La loro vita era l’azione…

Alle donne toccava il mare di costa, battuta da libecciate che stringevano il cuore delle spose o delle ragazze “promesse”, tuttavia musica sommessa e armoniosa, nel brillio azzurrino della sua superficie. Nell’aroma piccante delle cucine, nei vapori dei bucati alla soda e cenere, nel cucito, nella calza, nel telaio, nel ricamo, nella nostalgia dei corpi allacciati, la loro vita era l’attesa. Guardando l’orizzonte sereno e deserto mormoravano: “Che sveto de mae!”, con un brivido che le tagliava in due . Che vuoto di mare, significava…

Nelle leggende che riempivano le veglie famigliari si raccontava che il bisnonno materno, un robustone chiamato Natiche, nostromo sui brigantini fabbricati nella darsena di Lerici, combattesse a pugni nudi nelle vinerie fumose della Boca, a Buenos Aires. Vero? Falso? Esagerazione? Soprattutto emozione forte per me, bambino. Si parlava del suo naufragio alle isole Chincha, sulle coste cilene, dove andavano a caricare guano per le pianure infruttuose della Germania settentrionale. Mesi e mesi di viaggio, con la pelle avvelenata dagli acidi. E di una sua lunga sparizione. E della nascita di un figlio suo, al quale la bisnonna non volle dare un nome fino a quando Natiche non fosse tornato. Tornò dopo tre anni e al bambino, mio nonno materno, fu attribuito il nome del luogo in cui suo padre fu tratto dal mare in tempesta da gente che si dichiarò essere di Monardo. Come dire: Fortunato! Anch’io porto quel nome, come secondo dopo Luigi, ereditato da mia nonna, morta giovane di crepacuore, come si diceva un tempo, per amore di un figlio scavezzacollo, ed è come essere il consegnatario di una epopea, di una leggenda, di una favola, forse l’invenzione di Natiche per coprire una storia d’amore passeggera. Ho cercato invano quel nome sulle carte nautiche e sulle mappe cilene, senza mai rinvenirlo. Solo recentemente un’amica che in Cile condusse attività di scambio culturale mi ha confermato che Monardo è un cognome spagnolo e l’ipotesi che i salvatori dicendo “siamo di Monardo” intendessero il proprietario della terra del salvataggio conferì alla leggenda o alla invenzione il marchio della realtà e della certezza. Natiche finì per non tornare più, come spesso toccava ai marinai dei velieri. Morì di colera a Valparaiso, in Cile, e fu seppellito in una fossa comune…

Mio padre si chiamava Fausto, confermando la regola dello spavento che la nascita portava in dono insieme a qualche incerta felicità. Nato da una madre pantalonaia che si consumò sulla Singer a manovella e da un padre che aveva attaccato al chiodo lo voglia di lavorare, non finì la terza elementare e andò a garzone di carpentiere. Studiò vita dura e divenne cuoco di talento. Dicono che ridesse volentieri e che scoreggiasse nelle pentole molto sonoramente. Erano i suoi messaggi anarcoidi destinati agli ufficiali che lodavano le sue piccatine di maiale truccato da vitella, un’economia gradita al castello di prua dell’incrociatore leggero Diaz sul quale era imbarcato e che non abbandonò alla mussoliniana dichiarazione di guerra del giugno 1940 perché “se tutti facessimo così chi difenderebbe la patria!?”. Con una bugia della propaganda fascista, visto che eravamo degli aggressori, tappò la bocca a mia madre, ventenne, che mi aveva appena partorito e che lo supplicava di “sbarcare” .

Il Diaz era una bella nave, fabbricata a La Spezia e varata nel 1933 per battere record di velocità. Leggera, priva di corazze, non adatta al combattimento, era capace di 41 nodi all’ora. L’equipaggio la chiamava “scatola di cartone”. Per questo il siluro inglese che la colpì, nel canale di Sicilia, in una notte di luna piena del febbraio del 1941, mentre scortava un convoglio di rifornimenti per l’armata di Graziani, la squarciò come un giocattolo da quattro soldi. Cinquecento uomini morirono, poco più di duecento furono salvati. Mio padre fu tra i morti. Aveva trent’anni. Il nome Fausto non lo protesse, come la madre sfiancata gli aveva augurato attribuendoglielo. Faceva parte dei mille morti che Mussolini avrebbe voluto per sedersi al tavolo delle trattative e spartirsi il mondo con la Germania e il Giappone? Di morti la seconda guerra mondiale ne fece più di sessanta milioni…